Dico subito che la lettura di questo libro mi ha preso molto, troppo tempo. Più volte mi sono trovato sul punto di cedere, metterlo da parte e ripromettermi di finirlo “più in la” (mentendo spudoratamente a me stesso). E invece no: da buon sardo – tanto per citare un abusato luogo comune – mi ci sono intestardito, e finalmente sono arrivato all’ultima pagina, col fiatone. Ne è valsa la pena? Vediamo.
Il Cimitero di Praga narra le vicende di tal Simone Simonini: una sorta di notaio, truffatore, falsario e agente segreto piemontese poi trapiantato in Francia, transitoriamente schizofrenico e vagamente psicopatico, coinvolto in tutta una serie di fatti storici realmente accaduti. Si va dalla caduta di Napoleone III, alla Spedizione dei Mille, alla Comune Parigina, alle trame della Chiesa, dei Gesuiti, dei Prussiani, della Polizia Zarista; si finisce col narrare le vicende legate ai falsi storici dei Protocolli dei Savi di Sion e dei culti Palladiani, Luciferini e della Massoneria più o meno coperta, fino al crescente antisemitismo, quello che pochi decenni dopo sfocerà nella Soluzione Finale. Questo in estrema sintesi.
Il romanzo è narrato in prima persona da Simone Simonini e dal coprotagonista Abate dalla Piccola, in buona parte in forma di diario e scambio epistolare (i due sono “strettamente” legati), e dalla terza figura del narratore anonimo.
Simone Simonini e l’Abate sono personaggi inventati, ma ispirati a figure realmente esistite, che soltanto uno studioso risorgimentale può sperare di riuscire a individuare. Sempre che di personaggi risorgimentali si tratti. In realtà Simone Somonini pare l’alter ego di alcuni personaggi assolutamente attuali, almeno nei modi e nell’intendere potere e politica.
Se non si è, come già detto, studiosi risorgimentali, conviene leggere il Cimitero di Praga di fianco al computer. Si potrà così scoprire che tutti gli altri personaggi citati nell’opera sono realmente esistiti. A parte quelli famosi (Garibaldi, Ippolito Nievo, Bixio, Freud, Dreyfus, ecc.), faremo la conoscenza di personaggi storici alquanto singolari, quali ad esempio gli scrittori Leo Taxil e Hermann Goedsche, e il satanista Joseph-Antoine Boullan.
Oltre all’impeccabile ricostruzione storica, Eco si diverte a inserire nel suo romanzo numerosi riferimenti alla cucina francese dell’epoca, interessanti digressioni sulla scienza degli esplosivi, e scampoli dell’imminente irruzione della modernità (la metropolitana, la posta pneumatica, le navi a vapore…). Ad arricchire e inframezzare il tutto, una ricca serie d’illustrazioni e stampe d’epoca.
Insomma, un’opera quasi enciclopedica condensata, si fa per dire, in poco più più di 500 pagine che, come dicevo in apertura, non è stato facile portare a termine. Primo perché 520 pagine non sono poche (il Pendolo di Focault superava le 700 pagine, e lo lessi in una settimana, ma erano altri tempi); secondo perché le citazioni e i fatti narrati sono davvero tanti, e una ripassatina di storia ogni tanto s’è resa necessaria; terzo, perché come negli altri romanzi di Eco, i dialoghi la fanno da padrone, e leggere pagine e pagine di botta e risposta alla fine stanca (a me fa questo effetto).
Quindi, tornando alla domanda iniziale, ne è valsa la pena? Se si parte dal presupposto che ogni libro letto rappresenta un arricchimento, diretto o indiretto, allora la risposta non può che essere affermativa. Se invece ci limitiamo a valutare la godibilità dell’opera, bè, che vi devo dire? Ne è valsa comunque la pena: alla fine è un bel romanzo. Sinceramente.
Ma che fatica, però!