Questo articolo è stato scritto il 4 settembre 2009 e oggi – marzo 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.
La storia è ambientata nella Roma di un futuro non troppo lontano dal nostro presente, riarsa da un sole infuocato, in preda a una spietata crisi economica e invasa da immigrati cinesi, nuovi padroni della città e unico popolo che è riuscito ad adattarsi ai catastrofici sconvolgimenti economici e sociali.
Il protagonista è un disoccupato quarantenne che vive centellinando un piccolo patrimonio messo da parte con la liquidazione. Vinto dall’accidia, passa le notti in un locale di spogliarelliste asiatiche, bevendo un numero fisso di birre e lasciando che il tempo gli scorra davanti. Fino a quando un incontro con un affascinante cinese, personaggio oscuro dai modi occidentali, interrompe quella che il protagonista vive come una piacevole routine, e ce lo racconta lui stesso, in prima persona, mentre sconta in carcere una condanna a trent’anni per omicidio.
Quando scrissi la recensione di Cinancittà di Tommaso Pincio, nel settembre del 2009, fui colto da una sorta di “blocco del recensore”. Arrivato all’ultima pagina, mi trovai nella sgradevole situazione di non riuscire a capire se avevo avuto a che fare con una buona lettura o con qualcosa di facilmente dimenticabile.
Ricordo tra l’altro che impiegai un po’ di tempo prima di decidermi se acquistare questo libro. Dopo aver letto la sinossi, infatti, la storia mi sembrava poco interessante: generalmente non amo le vicende che hanno a che fare con omicidi passionali (motivo per il quale il protagonista si trova rinchiuso a Regina Coeli), e se vogliamo dirla tutta, il titolo alle mie orecchie suonava cacofonico.
L’unico motivo per cui mi decisi a leggere quello che era allora l’ultimo romanzo di Tommaso Pincio, era che, appunto, l’aveva scritto Tommaso Pincio, autore che avevo apprezzato con La ragazza che non era lei, e che ho amato dopo aver letto quello che considero uno dei migliori libri in lingua italiana pubblicati nel ventunesimo secolo: il bellissimo Un amore dell’altro mondo.
Ciò che più mi piace di Tommaso Pincio è il suo stile di scrittura: semplice, lineare, per nulla auto celebrativo, amaramente ironico. Sembra di leggere Kurt Vonneghut, più che Thomas Pynchon (lo so: Pincio ha già detto che il cognome che s’è dato ha a più che fare col colle romano, che col celebre scrittore postmoderno, ma non me la sento di credergli sulla parola).
Nel corso della lettura è facile intuire che molte delle vicende raccontate nel libro hanno un’origine autobiografica. Estrapolata dal contesto distopico, la monotona quotidianità del protagonista pare simile a quella di molti ex giovani italiani: intellettualmente dotati ma privi di stimoli. Sognatori ai margini di una società dove altre qualità rendono una persona interessante: l’aspetto fisico, la ricchezza, il carisma, la popolarità.
Tommaso Pincio è riuscito a emergere, a venirne fuori, perché lui è un vero artista. Ma quanti sono, quanti siamo, quelli rassegnati, quelli che non ce l’hanno fatta?