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Luca Doninelli, Le Cose Semplici

Questo articolo è stato scritto originariamente il 5 gennaio 2016 e oggi – settembre 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Erano i primi giorni di novembre dello scorso anno quando, grazie a una semplice ricerca su Google, mi imbattei casualmente in questo romanzo. Sul momento non mi accorsi del fatto che si trattava di una nuova uscita, pubblicata da Bompiani da poco più di un mese, e visto lo scarso numero di recensioni su Amazon, oltre al fatto di non averne mai sentito parlare, pensai che probabilmente il libro non avesse avuto nessun successo commerciale e fosse stato snobbato dalla critica. Poco male: letta la sinossi decisi di scaricarne l’estratto.
Fin dalle prime righe notai che il libro era scritto benissimo , con uno stile semplice ma non per questo “povero”. Grazie a un’altra breve ricerca vengo a sapere che Luca Doninelli, giornalista che scrive su testate che solitamente non leggo, ha vinto in passato un Campiello e un Grinzane Cavour, il che non è detto sia una garanzia, ma insomma…
Finalizzai l’acquisto senza rendermi conto che si trattava di un mattone da 840 pagine. E per fortuna, aggiungo, altrimenti – spaventato dalla mole – avrei anche potuto lasciar perdere. Purtroppo non leggo più come una volta, e salvo vacanze e occasionali tempi morti, mandar giù 840 pagine leggendo esclusivamente a letto e durante qualche altro momento intimo sul quale è meglio non dilungarsi, equivale a dire che ci sarebbe voluto grossomodo un mese e mezzo per arrivare all’ultima pagina.
Invece ci sono voluti meno di trenta giorni e alla fine non s’è rivelata, tutto sommato, una lettura faticosa. Vero è che su Facebook mi ricordo di aver scritto un “Ma che fatica!”, riferito alle prime 3/400 pagine, ma s’è trattato di un’esclamazione dettata dall’aver perso l’abitudine ad affrontare romanzi così lunghi.
Il libro è scritto in forma di quaderni di memorie, con capitoli brevi e spesso scollegati l’uno dall’altro, se non con i rimandi affidati ai ricordi del protagonista/narrantore.
Provo a sintetizzare la storia: ci troviamo in un futuro apocalittico – ambientato inizialmente a Milano e Parigi, e dalla metà in poi in gran parte negli USA -, grossomodo a ventidue anni da oggi, in una Terra che deve fare i conti col crollo della civiltà dovuto all’evoluzione iperbolica dell’attuale crisi economica. Crisi che sfocerà in un progressiva quanto repentina interruzione delle trasmissioni audio e video, delle comunicazioni, dell’erogazione di elettricità, della disponibilità di petrolio e carburanti. Seguiranno un breve periodo in preda alla barbarie e una successiva stabilizzazione verso una convivenza pacifica ma non priva di rischi. Questa è l’ambientazione, ma il romanzo in realtà racconta soprattutto la storia d’amore tra il protagonista e un genio della matematica: una ragazza francese di famiglia strettamente cattolica, appena quindicenne nel giorno del loro primo incontro. Lui giovane laureato di estrazione borghese e lei già docente alla Sorbona. Storia d’amore che li condurrà all’altare non appena lei raggiungerà la maggiore età, e interrotta pochi anni dopo dal sopraggiungere improvviso dell’apocalisse.

“Ci fu un preciso momento (nessuno saprebbe dire quale) in cui quelli che avevano pensato di controllare il mondo decisero di mandarlo al diavolo”

Lei si ritroverà da sola negli Stati Uniti, e li darà il via a una sorta di utopia grazie alla quale la civiltà potrà continuare – forse – ad avere un futuro, mentre lui nel frattempo si trova intrappolato in una Milano in rovina, tra orrori e barlumi di speranza. Qui inizierà a scrivere i suoi quaderni, nei quali racconterà le vicende della sua famiglia (romanzo nel romanzo), della sua relazione con una ragazza anch’essa conosciuta da bambina, figlia di una sua ex amante, poi ritrovata adulta dopo l’apocalisse e con la quale concepirà un figlio: non l’unico…
Se vado avanti rischio di rivelare troppe cose, ma va detto che Le Cose Semplici non è un solo romanzo: sono tante storie, tante vite, tanti dialoghi sapientemente e magnificamente costruiti. Dialoghi che trattano di letteratura, religione, filosofia, politica. Dialoghi caratterizzati da una sottile ironia di fondo, a tratti spassosa.
Non è facile per me recensire questo libro: i temi trattati sono così tanti e così “importanti” che potrei non avere una preparazione culturale sufficiente per scriverne come si deve.
Ho letto qualche altra recensione de Le Cose Semplici. Qualcuno è arrivato a dire che è il romanzo italiano più importante del 2015. E siccome, nonostante l’autore non sia uno scrittore di genere, si tratta a tutti gli effetti di un romanzo di fantascienza distopica (ma anche, come già detto, utopica), mi sembra strano, molto strano, che nell’ambiente della SF nostrana non se ne sia parlato per nulla.
Dimenticavo: preso dall’entusiasmo mi sono scordato dei difetti, che pure ci sono. Uno su tutti il finale, carino ma non all’altezza del resto. E poi ho trovato eccessiva la brevità delle storie narrate nelle ultime cento pagine. Ma su questi due punti si può e si deve sorvolare.

Alessandro Vietti – Real Mars

Vuoi per il lavoro, la famiglia, gli impegni e un feeling col romanzo che non è scattato da subito, ho impiegato una vita a leggere e portare a termine questo Real Mars, romanzo di fantascienza sociologica scritto da Alessadro Vietti e edito dai “ragazzi” di Zona 42.
Perché il feeling non è scattato, nonostante i temi proposti, particolarmente intriganti? Perché Vietti usa, volutamente e giocoforza, una tecnica di scrittura “televisiva”, ricca di “inquadrature“, cambi di scena, alternanza e moltiplicazione dei punti di vista. Peccato che, per come la vedo io, tutto ciò che è assimilabile al linguaggio televisivo è per sua natura forzatamente innaturale. Tale caratteristica mi ha impedito di “immergermi” nel contesto narrativo, ragion per cui ho vissuto la storia come, appunto, se l’avessi vista in TV. Caratteristica – va detto – che è stata giudicata in modo estremamente positivo da un buon numero di recensori. Punto primo.
Secondo: dopo poche pagine ero già in overdose da similitudini, figura retorica – sorella “povera” della metafora – che Vietti dispensa abbondantemente, tanto che non sono infrequenti i periodi che ne contengono addirittura una paio, come questo:

“Dopo una sola domanda, la Renard si alza ed esce come una che deve correre in bagno, sottraendosi alla ridda di domande che si solleva dalla platea come un’oda anomala.”

Il “come un’onda anomala” è evidentemente di troppo, perché non serve a figurare l’immagine della “ridda” di domande che si “solleva” dalla platea. Ridda e solleva sono più che sufficienti, per non dire perfetti, per farti immaginare la scena, mentre “come un’onda anomala” – dopo che la similitudine l’hai già usata per la Renard che si alza e esce “come una che deve correre in bagno” – appesantisce il testo. Un inutile ricamo. Sembra quasi di leggere il testo di una canzone rap.

A questo punto penserete che il romanzo non mi sia piaciuto. Falso. I romanzi che non mi piacciono, semplicemente, io li abbandono. Posso andare avanti per qualche capitolo, o addirittura superare la metà del libro. Ma se non mi piace non lo finisco, e la cosa mi è capitata centinaia di volte. Di Real Mars invece sono arrivato a leggere la parola fine, con tanto di commozione e brividi lungo la schiena. Il perché è presto detto: la storia acchiappa. Cattura l’attenzione del lettore. Coinvolge. Intriga.
Ci si affeziona ai personaggi principali, meno a quelli di contorno, e le tante microstorie che Vietti dispensa lungo le 320 pagine della versione cartacea a volte distraggono, ti fanno perdere il binario della narrazione. Ma durano poco, e ti ritrovi  nuovamente a seguire le vicende del comandante Kostantin Beznosov, della fragile biologa Therèse Fernandez, dell’avvenente chimica e geologa Ulrike Reimann e dell’affascinante ingegnere Ettore Lombardi. Sono loro i quattro astronauti imbarcati nell’astronave Europe 1, scelti per la prima missione umana verso il pianeta Rosso organizzata dall’ESA e finanziata con i capitali privati del reality Real Mars, reality di cui l’equipaggio è il protagonista assoluto. Selezionato in base alle rispettive competenze. Oppure grazie allo loro presenza scenica?

Real-Mars-Cop-663x900Tra le tante “comparse” troviamo personaggi televisivi e del jet set a noi familiari, vecchi di qualche anno, alternati a figure caricaturali facilmente riconoscibili. Vietti dispensa sapientemente perizia scientifica, colpi di scena e conoscenza del mezzo televisivo, il tutto condito con una buona dose di ironia, a volte sottile, spesso a buon mercato (specie se in abbinamento alle similitudini di cui sopra). Frequenti i cambi di prospettiva, il ricorso al linguaggio pubblicitario visto in chiave satirica – un po’ Dick e un po’ Brunner – e la speculazione sociologica. Sapientemente costruiti i dialoghi e, specie nel finale, viene reso molto bene lo spessore drammatico.

A proposito di finale: non so se farina del sacco di Vietti o di un sapiente intervento di editing, ma negli ultimi capitoli si assiste a un totale cambio di registro. Spariscono le similitudini hip hop per fare posto all’escalation drammatica del finale con brividi di cui ho parlato all’inizio. E proprio il finale, pur se un pelino sbrigativo, e la parte migliore di tutto il romanzo: vale la pena arrivarci.
Complimenti quindi a Alessandro Vietti e a Zona 42, casa editrice che investe nella fantascienza italiana e internazionale di qualità e che, sono sicuro, non smetterà di stupirci… A proposito di linguaggio televisivo.

Nicola Skert, Hitorizumo

Questo articolo è stato scritto originariamente il 7 febbraio 2015 e oggi – luglio 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Non nascondo che quando scrissi per la prima volta la mia recensione di Hitorizumo provai una certa difficoltà nel valutare l’opera. Primo: perché ebbi modo di scambiare su Facebook qualche parola con Nicola Skert, giovane scrittore alla sua seconda opera, e questa seppur risicatissima conoscenza rischiava di compromettere il mio giudizio (lo so, è una mia tara caratteriale…). Secondo: perché feci una gran fatica ad arrivare alla fine del romanzo, pur non riuscendo a staccarmene, per poi rendermi conto che i capitoli finali valevano da soli tutto il tempo necessario per arrivare fino all’ultima pagina. Terzo: perché ritenevo ottima l’idea alla base della storia, arricchita da una serie trovate davvero geniali. Purtroppo però (quarto) alcuni difetti si sono rivelati davvero difficili da digerire.
E quindi tanto vale parlare subito di questi difetti, che poi stringi stringi si concentrano su uno soltanto: i dialoghi. Troppo innaturali, artificiosamente brillanti, ricchi di battute spiritose che tuttavia troppo spesso non fanno ridere. Dialoghi che vorrebbero essere cinici o sarcastici, oppure arguti, ma senza riuscirci mai appieno. Talvolta sembrano estrapolati di netto dalla pubblicità, per quanto paiono forzati e finti.
Peccato, perché per il resto (a parte qualche refuso sfuggito qua e là in fase di editing) il romanzo è scritto davvero bene, e molte descrizioni vengono rese in maniera magistrale, anche se a volte capita che venga oltrepassata la soglia tra il racconto e lo spiegone, senza peraltro mai tracimare in logorroici infodump.
La storia: improvvisamente la Terra piomba nel buio. Un buio impenetrabile e apocalittico, per il quale apparentemente non esiste una spiegazione scientifica. Un’oscurità sinistramente preannunciata da misteriose ombre che furtivamente, senza mai rivelarsi del tutto, transitano ai margini del campo visivo dei protagonisti.
Nel giro di poche ore l’umanità si troverà a combattere contro il gelo polare dovuto al brusco calo termico. Il tutto viene reso in maniera scientificamente plausibile, ben documentata nell’appendice i coda al romanzo.
Il lettore stesso sentirà il gelo intaccargli le ossa, tanto è efficace la prosa di Skert nel descrivere le sensazioni provate dai protagonisti.
La totale assenza di luce e energia, gli incendi, i fumi tossici e le bande di gente comune in preda al panico o, peggio, a una incontrollabile follia omicida, accompagnano il giovane meteorologo Paolo e il suo amico Mirco nel più tenebroso dei viaggi on the road. Entrambi cercheranno di raggiungere Angela e Giulio, rispettivamente moglie e figlio di Paolo, asserragliati tra le mura domestiche insieme a Luca, un amico e vicino di casa reso psicologicamente instabile dall’improvvisa scomparsa della luce. Sarà un viaggio difficile, pericoloso e drammatico, dove non mancheranno momenti in puro stile horror e la tensione non accennerà mai a calare, se non nei dialoghi di cui sopra.
Può bastare così, di Hitorizumo non si deve raccontare altro: il rischio di rovinare la sorpresa del finale è alta, pertanto mi limito a dire che la trama non è soltanto quella da me sommariamente riportata. È altro, molto altro.
Un romanzo da leggere, e soprattutto da finire. Fidatevi.

PS: In appendice al romanzo vengono riportati alcuni studi scientifici che sviluppano l’ipotesi alla base del racconto, ossia l’improvviso spegnimento (o oscuramento) del sole. Purtroppo non si tratta di articoli divulgativi, e alla seconda equazione ho iniziato a perdere il filo. Peccato, perché l’argomento è interessante, ma per come viene trattato sembra rivolto a studiosi e accademici, non a semplici appassionati di scienza e fantascienza.

Paolo Zardi, XXI Secolo

Questo articolo è stato scritto originariamente il 29 settembre 2015 e oggi – giugno 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

L’estate scorsa, grazie a una banale ricerca su Google, casualmente mi sono imbattuto nella recensione pubblicata sul Fatto Quotidiano del romanzo XXI Secolo di Paolo Zardi, scrittore che non conoscevo, nonostante proprio con quest’opera sia stato candidato al Premio Strega (ammetto di non prestare particolare attenzione alle kermesse letterarie). A distanza di nove mesi dalla sua lettura, non posso fare a meno di rilevare che, salvo sporadiche eccezioni, anche questo libro, indubbiamente SF ma di provenienza mainstream, sia stato discretamente snobbato dagli utenti delle community web e social che hanno a che fare con il nostro genere letterario preferito.
Il romanzo di Zardi, come tanti altri recensiti in questa rubrica, è ambientato in un futuro non molto lontano dal nostro presente. Per via di alcune evoluzioni geopolitiche a mio avviso abbastanza improbabili, per lo meno nell’immediato (Brasile potenza imperialista e nucleare, Cina e Russia ai ferri corti e sull’orlo di una guerra, Stati Uniti ridimensionati a ruolo di comprimari nello scacchiere internazionale) mi piace considerare la storia come ambientata in un universo alternativo, a prescindere dalle quelle che solo le reali intenzioni dell’autore.
L’economia, manco a dirlo, è peggiorata a livelli apocalittici, tanto che improvvisi e pericolosi black out della durata di qualche giorno colpiscono a caso intere regioni, gettandole nottetempo in preda al caos e alla barbarie.
In questo paesaggio dipinto a tinte fosche, caratterizzato da periferie urbane decadenti, senso di pericolo costante, ritorno alla pena di morte e gatti che chissà perché diventano sempre più rari, si muove l’anonimo protagonista del racconto: un rampante venditore porta a porta di depuratori d’acqua, sposato con Eleonore – una bella donna di origine austriaca -, e padre di un bambino e di una ragazza poco più che adolescente.
A inizio racconto, con una tipica apertura in media res, veniamo a sapere che Eleonore è stata colpita da un ictus fulminante, a causa del quale cade in uno stato di coma profondo, apparentemente non definitivo. Il protagonista si trova pertanto costretto ad affrontare la personale sofferenza dovuta alla situazione drammatica nella quale si trova la moglie, che indubbiamente ama, oltre a tutte le problematiche connesse al dover portare avanti il lavoro e prendersi cura dei figli.
Tragedia nella tragedia, irrompono nella storia un mazzo di chiavi di provenienza sconosciuta e un cellulare nascosto nel cassetto della biancheria. Dentro la memory card del cellulare, reso inaccessibile dalla presenza di un codice pin, l’uomo trova una serie di foto pornografiche che ritraggono Eleonore in compagnia di uno sconosciuto.
Dalla tragedia al dramma, umano e sentimentale, il passo è breve, e da qui in poi il protagonista inizierà la sua ricerca di una verità nascosta, intraprendendo un viaggio in parte on the road e in parte interiore, dove sarà costretto ad affrontare situazioni estremamente pericolose che, unite a un costante e opprimente senso d’angoscia, ne metteranno a dura prova l’integrità fisica e la salute mentale.
Gran bel romanzo, scritto benissimo e con un finale commuovente. Benché, come ho scritto all’inizio, il contesto geopolitico e lo scenario socioeconomico sembrino vacillare (forse sarebbe stato opportuno un maggiore approfondimento, che l’autore credo abbia scientemente evitato per limitare il ricorso all’infodump), ritengo XXI Secolo di Paolo Zardi una lettura imprescindibile per gli amanti del genere distopico.

Alessandra Daniele – L’Era del Cazzaro

l'era del cazzaro, di Alessandra DanieleSu facebook mi è capitato più volte di condividere i graffianti articoli di satira e gli “attualissimi” racconti di fantapolitica che Alessandra Daniele pubblica sul sito di “letteratura, immaginario e cultura d’opposizione” Carmillaonline.com. Più volte ho affermato, e qui lo ribadisco, che Alessandra Daniele  meriterebbe di scrivere nei tre o quattro principali quotidiani nazionali, ma in Italia queste cose non accadono: preferiscono continuare a propinarci Amache & Buongiorni sempre più scontati, ovvi e stracciapalle.
L’Era del Cazzaro contiene una raccolta di racconti e articoli di satira al vetriolo dedicati, appunto, al Cazzaro per antonomasia. No, non Berlusconi… Per lo meno non quello vecchio… Quell’altro, suo degno erede, più giovane, e anche peggiore dell’originale.
La scrittura di Alessadra Daniele è pulita, veloce, tagliente. I suoi articoli fanno, ridere, sorridere e riflettere. In più, Alessandra Daniele è una grande appassionata di fantascienza, il che non guasta, e un’esperta di serie televisive. Pertanto occhio alle citazioni, non sempre comprensibili se non si dispone di un certo background culturale “alternativo”.
L’ebook è gratuito,  disponibile qui in tutti i formati. Perché non approfittarne?

Bruno Arpaia – Qualcosa, là fuori

Non capita spesso di leggere un romanzo così ben documentato, che potremmo definire come una sorta di saggio romanzato, o una docu-fiction su carta, come argutamente l’ha definita un altro recensore.
Proprio questo è il maggior pregio di Qualcosa, là fuori, del giornalista e scrittore napoletano Bruno Arpaia, dove l’apocalisse immaginata (o profetizzata) è, tra tutte, quella più probabile: uno sconvolgimento climatico mondiale. Perché la più probabile? Perché il riscaldamento globale è sotto gli occhi di tutti, e secondo alcuni studi, citati nell’opera, oltrepassato un non troppo distante punto di non ritorno, gli eventi non possono far altro che precipitare.
Questo succede nel romanzo di Arpaia, e l’autore ce lo racconta attraverso la vicende che vedono per protagonista Livio, anziano docente universitario che intorno al 2080, insieme a una carovana composta da migliaia di disperati, partirà per un lungo viaggio a piedi verso i paesi nordici, gli unici che in questo futuro apocalittico potranno ancora godere di un clima stabilmente mite.
Il romanzo è costruito con un’alternanza di capitoli che raccontano: 1) il viaggio di Livio e dei suoi amici migranti –  per lo più italiani, disperati e in fuga, al pari di quelli che sbarcano oggi nelle nostre coste – verso l’ambita meta; 2) la storia stessa di Livio, dagli anni dell’università in Italia a quelli della migrazione verso nord, passando per la storia d’amore con una ragazza d’origine Siriana, figlia di migranti dei giorni nostri. Con lei si sposterà negli Stati Uniti d’America, ed entrambi verranno assunti da importanti università dove potranno approfondire le loro ricerche.
L’escalation climatica tuttavia non accenna ad arrestarsi e la situazione diverrà sempre più drammatica e pericolosa, finché la coppia, insieme a loro figlio, non sarà costretta a tornare in un’Italia irriconoscibile e disastrata, agitata da conflitti sociali, religiosi e etnici.
Quella di Arpaia è una scrittura nervosa, lucida, secca, quasi a voler ricalcare le condizioni climatiche estreme di cui parla il romanzo.
bruno arpaia - qualcosa, là fuoriTutti quei paesaggi riarsi dal sole, il caldo, la polvere, le sterpaglie… ambienti descritti così bene che a volte vorresti avere un bicchiere d’acqua a portata di mano, in modo da placare la sete atavica che ti coglie mentre t’immedesimi nei tormenti dei protagonisti.
Bello il finale, forse scontato ma onesto, che non illude il lettore.
Impossibile non provare timore per un futuro del tutto plausibile, che noi già iniziamo a intravvedere, e che purtroppo lasceremo in eredità ai nostri figli.
Davvero un bel romanzo, mai monotono, lungo il giusto e ben documentato. Da leggere e approfondire, grazie numerose alle fonti citate nella nota di chiusura.

Alessandro Bertante – Nina dei Lupi

Questo articolo è stato scritto originariamente il 16 aprile 2011 e oggi – aprile 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Viene facile accostare Nina dei Lupi di Alessandro Bertante a L’Uomo Verticale di Davide Longo. È stato d’altra parte lo stesso Bertante a omaggiare e allo stesso tempo prendere le distanze dal romanzo di Longo: “Ci sono delle assonanze con La Strada di McCarthy e il recente ‘L’uomo verticale’ di Davide Longo, ma il mio percorso è diverso, non è ‘classico’. Mi sono ispirato ad alcuni testi di antropologia culturale e alla mitologia dell’arco alpino, che ha un’origine addirittura neolitica*”. Un semplice lettore come me, invece, non può fare a meno di notare che i due romanzi, benché diversi, sembrano costruiti lungo la stessa linea temporale. Volendola sparare grossa si può dire che Nina dei Lupi può essere letto come il seguito de L’Uomo Verticale.
Il romanzo di Longo è ambientato nel bel mezzo della prima ondata di barbarie scatenatasi a seguito di sconvolgimento sociale che ha annichilito istituzioni e forze dell’ordine. Le vicende narrate da Bertante invece sembrano svolgersi qualche anno dopo ed hanno per protagonisti alcuni abitanti di un villaggio di montagna isolato dal resto del mondo. Un mondo ormai in rovina abitato da piccole comunità che, scendendo a compromessi con la loro natura pacifica, sono costrette a impugnare le armi e difendersi dalle bande di violenti.
Se quello di Longo è in prevalentemente un romanzo “on the road”, Bertante concentra l’azione in mezzo alla natura, tra le montane, con le sue leggende e i suoi riti ancestrali, gli stessi ai quali l’autore stesso fa riferimento nella citazione dell’intervista sopra riportata.
Altra differenza consiste nella natura stessa dei protagonisti: quello principale de “L’Uomo Verticale” è in fin dei conti una persona mite, un intellettuale decaduto con un passato di successo, che durante lo svolgersi degli eventi dovrà imparare a sopravvivere e a proteggere le persone a lui care, abdicando alla propria natura pacifica e passiva. I personaggi di Bertante, dalla psicologia ben delineata, hanno invece qualcosa di eroico e mitologico. Addirittura epico, tanto che, come ha fatto notare lo scrittore Giovanni Cocco nella sua recensione pubblicata su Carmillaonline.com, il romanzo riecheggia alcune atmosfere tipiche dei racconti fantasy**.
Riassumo in breve la breve la trama: a seguito di un cataclisma non meglio precisato che ha fatto mutare il colore del cielo e che ha sprofondato il pianeta (o quantomeno l’Italia) nell’anarchia e nella barbarie, alcuni abitanti del villaggio di Piedimulo vivono in perfetto isolamento, dopo aver distrutto l’unico passaggio agibile tra le montagne: soluzione estrema che non sarà sufficiente a fermare una banda di predoni incline alla violenza e al sadismo, composta da persone un tempo normali e appartenenti a un’umanità eterogenea, che col precipitare degli eventi hanno dato libero sfogo ai loro peggiori istinti. Il gruppo prenderà possesso del paese decimandone brutalmente la popolazione e schiavizzando i sopravvissuti. Tra questi una bambina in procinto di diventare donna, già scampata ai disordini scoppiati in città, che riuscirà a fuggire nel bosco fino a rifugiarsi presso una sorta di eremita con passato cittadino. Un solitario che vive di caccia e provviste nella sua baita in mezzo al bosco. Insieme a loro vivono i lupi, i veri padroni della montagna.
Benché nel complesso abbia preferito L’Uomo Verticale, anche Nina dei Lupi è un gran bel romanzo, finalista del premio Strega e dal buon riscontro di critica e pubblico.
Il romanzo è caratterizzato da un buon ritmo, è abbastanza breve e si legge tutto d’un fiato. Se proprio gli si vuole trovare qualche difetto, posso dire che a tratti Bertante indugia troppo su una narrazione di stile fiabesco, anche in quei passaggi che, per contro, meriterebbero una prosa maggiormente realista. Penso ad esempio al racconto dello scoppio delle violenze che fanno da preludio al crollo della civiltà. Altre parti invece, finale compreso, vengono liquidate troppo velocemente, senza l’approfondimento che avrebbero meritato. Ma sarebbe davvero il voler trovare il capello nell’uovo.

* Intervista pubblicata su affaritaliani.it, 2 marzo 2011, a cura di Antonio Prudenzano
** Recensione pubblicata su carmillaonline.com, 11 marzo 2011, a cura di Giovanni Cocco

Giovanni Cocco – La Promessa

Con La Promessa, Giovanni Cocco riprende il progetto inaugurato con La Caduta, romanzo pubblicato nel 2013 e finalista del Premio Campiello. La Caduta è una sorta di romanzo apocalittico contemporaneo, che partendo dalle tante piccole apocalissi che hanno caratterizzato queste prime due decadi del ventunesimo secolo (tsunami, uragani, incidenti, rivolte, scandali) disegna uno scenario che vede nella complessa decadenza della civiltà umana – in particolare di quella occidentale – il prodromo di una fine dei tempi sempre più vicina.
La Promessa è il secondo di quattro romanzi rientranti in questo progetto work in progress denominato Genesi. Come ci informa Cocco nella sua nota finale, a quanto pare una sorta di crisi di ispirazione ha fatto si che un bel po’ di materiale, inerente ben altri temi, sia stato alla fine scartato dall’autore in favore di un quasi istant book sulla vicenda del Volo 4U9525 della Germanwings, partito da Barcellona con destinazione Düsseldorf, e fatto schiantare dal copilota Andreas Lubitz sul massiccio dei Trois-Évêchés, nel versante francese delle Alpi.
Questo tragico evento ha fatto scattare in Cocco quella “molla” che l’ha convinto a mettere da parte quanto scritto fino a quel momento e ad occuparsi di Andreas Lubitz e del suo drammatico gesto. Il protagonista, evidente alter ego dello scrittore, è un maturo giornalista francese – prestatosi temporaneamente all’insegnamento – dalla complicata vita sentimentale e alle prese con una strisciante depressione, che gli causa tra l’altro devastanti attacchi di panico.
La Promessa, di Giovanni CoccoAttratto dalle ipotetiche ragioni che hanno spinto Andreas Lubitz a causare la morte di 150 vittime innocenti, decide di trasferirsi dalle parti del disastro (come ha fatto nella realtà lo stesso Cocco) e da lì provare a indagare sulla storia personale del giovane pilota tedesco.
Un po’ romanzo narrato in prima persona, un po’ indagine giornalistica, La Promessa si legge velocemente, senza cadute di ritmo. Scritto bene, con precisione quasi artigianale, non viene mai meno la voglia di proseguire nella lettura, anche se, bisogna dirlo, alla fine si rimane con l’amaro in bocca. Come se il romanzo, di punto in bianco, sia stato frettolosamente chiuso dall’autore per mancanza di idee, o per stanchezza. Alla fine, quindi, pur trattandosi di una buona lettura, rimane la delusione dovuta alle aspettative create dall’ottimo La caduta. Una sorta di deviazione dal percorso tracciato dallo stesso Cocco, che nel portare avanti questo ambizioso progetto spero possa ritrovare la strada maestra.

Umberto Rossi – L’uomo che ricordava troppo

Quello di Umberto Rossi è un nome affermato nel panorama fantascientifico nazionale, e non solo. Critico, studioso, traduttore e, con questo L’uomo che ricordava troppo, anche autore, il Professor Rossi è uno dei massimi conoscitori internazionali della figura e dell’opera di Philip K. Dick, autore al quale chiaramente di ispira, per sua stessa ammissione, nella stesura di questo romanzo dal titolo hitchcockiano.
Tanti sono infatti i riferimenti e gli spunti che riprendono direttamente le tematiche care al celebre scrittore californiano, dall’impossibilità di definire chiaramente una realtà oggettiva, alla presenza di universi paralleli e “ortogonali”; dalla programmazione mnemonica alla costante paranoia dietro la quale personaggi del tutto anonimi si tramutano in anti eroi sui quali far gravare il destino di un universo pronto a cadere a pezzi dal un momento all’altro… Boooooom!!!
Mettendo da parte i toni enfatici che, sono sicuro, il Proff. NON apprezzerà, posso dire che l’Uomo che ricordava troppo s’è rivelata una lettura divertente, semplice, lineare… fino a un certo punto. Molto bella la prima parte, nella quale il protagonista, Johann Hagenström, cerca di far riemergere quei ricordi appartenenti a un passato che sente non appartenergli. O quanto meno non sembrano appartenere all’universo nel quale vive. Aiutato da uno psichiatra dai modi ambigui, Hagenström tenterà di mettere ordine nel proprio passato e proverà a dare una spiegazione a quei ricordi che lo vedono protagonista di situazioni impossibili: combattente nella Guerra Civile Italiana che vede affrontarsi comunisti e fascisti; umberto-rossi-l-uomo-che-ricordava-troppoagente segreto in libano; sperduto in una Puglia desertica insieme a una donna che sente di amare; artista ebreo rinchiuso in un campo di concentramento, sottoposto a terribili esperimenti per mano di uno scienziato folle.
Andando avanti con la lettura le cose si complicano, non poco. Nella seconda metà del romanzo tante, forse troppe, sono le parti in cui il protagonista tenta di spiegare quanto sta succedendo a lui e al mondo che lo circonda, e i dialoghi con gli altri attori della vicenda diventano eccessivamente lunghi, a mio modo di vedere, tanto che alcune pagine credo di averle lette senza la dovuta attenzione. Poco male. La storia rimane comunque godibile, impossibile interromperne la lettura. Cosa si vuole di più?

Mauro Baldrati – Fuga

fuga, di mauro baldratiDa anni seguo con interesse il sito carmillaonline.com, sito dedicato a “Letteratura, Immaginario e Cultura d’Opposizione“. Lo seguo soprattutto per gli articoli dedicati, appunto, a Letteratura e Immaginario, e per i graffianti racconti satirici di Alessandra Daniele, mentre non condivido buona parte dell’ideologia politica di fondo, appartenente all’area antagonista. Ma questo è secondario.
Il romanzo breve intitolato Fuga, di cui parlo in questa breve rencesione, è stato scritto da Mauro Bladrati, redattore di Carmilla. È liberamente scaricabile dal sito, e questa è cosa buona. Si tratta, per loro stessa definizione, di un “thriller avventuroso di fantapolitica“. Molto fanta, direi: il Partito Democratico, al potere in Italia ormai da molti anni, ha subito un’evoluzione dispotica, diventando partito unico e gettando l’italia in una feroce dittatura alla Salò e le 120 giornate di Sodoma. L’opposizione clandestina, più o meno organizzata, è composta dagli ex NoTAV, indetificati come fuorilegge e criminali, e sottoposti – quando catturati – a terribili e sadiche pene detentive.
A rigor di logica, se si considera che in Italia abbiamo avuto un ex socialista a capo di una feroce dittatura fascista, non possiamo escludere che l’attuale sinistra al potete possa incappare in tentazioni autoritarie, ma la piega presa dagli eventi narrati nel racconto di Baldarati pare eccessivamente caricaturale, enfatica e inverosimile. D’accordo che si tratta di satira sconfinante nell’allegoria, ma il risultato m’è parso poco convincente.
Se non altro, si legge velocemente.