Ho riletto per la terza volta questo capolavoro assoluto del grande Philip K. Dick, nella traduzione di Umberto Rossi. L’ho fatto a più di venticinque anni dalla seconda lettura e l’ho ritrovato, ancora una volta, semplicemente meraviglioso.
Ne Le Tre Stimmate di Palmer Eldritch, da alcuni considerato il miglior romanzo scritto dal visionario scrittore californiano, troviamo la summa di tutte le tematiche tipiche della narrativa dickiana: l’impossibilità di definire la realtà entro canoni oggettivi, l’abuso di droghe, la paranoia, la denuncia del capitalismo pervasivo, il fascismo palese o latente, il ricorso alle arti quale forma di elevazione spirituale, i poteri paranormali (che rendono tutt’altro che supereroi chi li possiede), il misticismo tecnologico, l’inadeguatezza nel rapportarsi con le persone e soprattutto con le donne… e tanto altro. Descriverne la trama non è impresa semplice. Sostanzialmente, siamo alle prese con una serie di personaggi che si muovono in una società altamente competitiva, dove alcune multinazionali si contendono il ricco mercato delle forniture per le colonie marziane. Continua a leggere
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David F. Duffy, La strana storia dell’androide Philip K. Dick
Attorno al 2003 un gruppo di persone provenienti da esperienze diverse misero insieme le proprie abilità per dare vita a un progetto alquanto singolare: la creazione di un androide dotato di intelligenza artificiale con le sembianze di Philip K. Dick. I principali partecipanti al progetto erano lo scultore David Hanson e gli informatici Art Graesser e Peter Olney. Il primo era attivo nel campo della robotica antropomorfa, mentre gli altri due si occupavano di programmazione e intelligenza artificiale. Il risultato fu la creazione di un androide dal volto sinistramente identico a quello di Philip Dick, che poteva interagire con le persone, conversare e rispondere alle domande in puro stile dickiano. Al progetto venne dato un certo risalto sia in ambito scientifico che a livello puramente mediatico, tanto che la cosa attirò l’attenzione di Google. Proprio durante un viaggio in aereo con destinazione Mountain View, in California (la sede di Google), la “testa”, ossia la componente principale e tecnologicamente più evoluta dell’androide, venne misteriosamente e definitivamente smarrita, mettendo così la parola fine al progetto. Continua a leggere
Segnalo questo ottimo articolo, che Tommaso Pincio pubblica nel suo Blog. Articolo inizialmente autobiografico, e che apre con l’omicidio di John Lennon. Mi ricorda l’incipit de La Trasmigrazione di Timothy Archer, ultimo romanzo scritto da Philip K. Dick, e anch’esso ampiamente autobiografico.
Si parla anche di India, dove Horselover Fat – alter ego schizofrenico di Dick – si recò alla fine di Valis, primo tomo della trilogia di cui La Trasmigrazione è l’opera ultima.
Ricordo di aver letto da qualche parte che John Lennon fosse interessato a produrre la trasposizione cinematografica di Le Tre Simmate di Palmer Eldritch. Doveva entrarci in qualche modo Timothy Leary, il santone dell’LSD…
Le analogie (mie) finiscono qui e non c’entrano nulla col resto dell’articolo, che parla di tutt’altro – ossia del libro I Beatles in India di Lewis Lapham – e non menziona Dick neanche di sguincio…
The Man in the Hight Castle – Amazon Video
Devo dirlo: superate le prime due o tre puntate, The Man in the Hight Castle s’è rivelata una gran bella serie, a tratti ottima. E, tutto sommato, abbastanza fedele rispetto al romanzo, al netto di alcuni adattamenti probabilmente indispensabili per una resa migliore su schermo.
Manca forse il protagonista forte, carismatico. Tuttavia vale la pena arrivare all’ultima puntata, anche soltanto per le emozioni che possono scaturire dalla visione di alcune sequenze, talmente forti e fedeli che paiono balzare fuori direttame dalle pagine del libro, così come Dick le aveva immaginate.
Philip K. Dick – La Ragazza dai Capelli Scuri
Sono da sempre un appassionato lettore di Philip K. Dick, scrittore al quale arrivai dopo aver passato qualche anno della mia vita leggendo tutta la produzione fantascientifica di Asimov e un bel po’ di Urania a casaccio. Non ricordo se il mio primo libro di Dick fu un’antologia di racconti o il romanzo Il Cacciatore di Androidi, ma oggi, a quasi venticinque anni di distanza, posso dire di aver letto quasi tutta la sua produzione, ad eccezione di qualcuno dei suoi romanzi mainstream di recente pubblicazione. Un paio di romanzetti trascurabili, di quelli che scriveva mentre tirava a campare mangiando carne di cavallo destinata all’alimentazione animale, li ho iniziati e non finiti, ma al netto di queste poche eccezioni, si tratta comunque di alcune decine di libri, molti dei quali letti e riletti in edizioni differenti.
Ne La Ragazza dai Capelli Scuri abbiamo a che fare con una delle tante opere minori scritte da Dick, pubblicata postuma, per la prima volta qui in Italia in questa unica (e scarna) edizione Fanucci. Si tratta di una raccolta di lettere, saggi e altri scritti (non tutti inediti) dove Dick, oltre a trattare i soliti argomenti a lui cari (percezione della realtà, religione, androidi…), illustra – in forma epistolare, in una serie di lettere scritte nei primi anni settanta – il suo rapporto con le tante Dark Haired Girl che incrociarono la sua esistenza.
In particolare, le lettere vennero scritte durante un periodo in cui la vita dello scrittore californiano andava letteralmente a rotoli, tra abuso di droghe, frequentazioni pericolose, crisi creativa, divorzi improvvisi e tentativi di suicidio. Protagoniste o destinatarie di tali lettere, oltre al padre e qualche amico, sono le ragazze del titolo, tutte giovanissime, psicologicamente e fisicamente fragili, dalla personalità spigolosa e dai lunghi capelli scuri.
Ragazze alle quali Dick si è sempre attaccato morbosamente, in relazioni difficili che poco hanno a che fare con l’attrazione sessuale o il desiderio di possesso o prevaricazione, ma che molto invece devono alla estrema insicurezza e alla lucida follia di una persona decisamente border line.
Dick inviò le lettere al suo editore nel tentativo di convincerlo a pubblicarle come se si trattasse di un unico romanzo, in un periodo in cui la sua produzione letteraria si era completamente azzerata. Il tentativo fallì e la raccolta rimase inedita fino alla riproposizione postuma a cura di Paul Williams, che scrive l’introduzione all’opera, affiancata in questa edizione da quella – ottima – di Carlo Pagetti.
Ho letto il libro in formato elettronico e, come ho accennato all’inizio, quando parlo di edizione scarna, devo dire di essere rimasto deluso dalla mancanza di tutte quelle informazioni che dovrebbero accompagnare questo tipo di pubblicazioni. Le lettere non hanno data, spesso vengono proposte senza soluzione di continuità, attaccate l’una all’altra, e il destinatario lo si legge o lo si intuisce tra le righe. Pochissime le note (un paio in tutto) per un libro che – specie se si conosce poco l’opera di Dick – ne avrebbe dovuto contenere a decine.
Nonostante questo, un vero appassionato di Dick non può non leggere La Ragazza dai Capelli Scuri: vale sicuramente la pena.
Umberto Rossi – L’uomo che ricordava troppo
Quello di Umberto Rossi è un nome affermato nel panorama fantascientifico nazionale, e non solo. Critico, studioso, traduttore e, con questo L’uomo che ricordava troppo, anche autore, il Professor Rossi è uno dei massimi conoscitori internazionali della figura e dell’opera di Philip K. Dick, autore al quale chiaramente di ispira, per sua stessa ammissione, nella stesura di questo romanzo dal titolo hitchcockiano.
Tanti sono infatti i riferimenti e gli spunti che riprendono direttamente le tematiche care al celebre scrittore californiano, dall’impossibilità di definire chiaramente una realtà oggettiva, alla presenza di universi paralleli e “ortogonali”; dalla programmazione mnemonica alla costante paranoia dietro la quale personaggi del tutto anonimi si tramutano in anti eroi sui quali far gravare il destino di un universo pronto a cadere a pezzi dal un momento all’altro… Boooooom!!!
Mettendo da parte i toni enfatici che, sono sicuro, il Proff. NON apprezzerà, posso dire che l’Uomo che ricordava troppo s’è rivelata una lettura divertente, semplice, lineare… fino a un certo punto. Molto bella la prima parte, nella quale il protagonista, Johann Hagenström, cerca di far riemergere quei ricordi appartenenti a un passato che sente non appartenergli. O quanto meno non sembrano appartenere all’universo nel quale vive. Aiutato da uno psichiatra dai modi ambigui, Hagenström tenterà di mettere ordine nel proprio passato e proverà a dare una spiegazione a quei ricordi che lo vedono protagonista di situazioni impossibili: combattente nella Guerra Civile Italiana che vede affrontarsi comunisti e fascisti; agente segreto in libano; sperduto in una Puglia desertica insieme a una donna che sente di amare; artista ebreo rinchiuso in un campo di concentramento, sottoposto a terribili esperimenti per mano di uno scienziato folle.
Andando avanti con la lettura le cose si complicano, non poco. Nella seconda metà del romanzo tante, forse troppe, sono le parti in cui il protagonista tenta di spiegare quanto sta succedendo a lui e al mondo che lo circonda, e i dialoghi con gli altri attori della vicenda diventano eccessivamente lunghi, a mio modo di vedere, tanto che alcune pagine credo di averle lette senza la dovuta attenzione. Poco male. La storia rimane comunque godibile, impossibile interromperne la lettura. Cosa si vuole di più?
Philip Roth – Complotto contro l’America
Nella mia personale classifica, l’ucronia più bella l’ha descritta Philip K. Dick con il romanzo The Man In The Hight Castle (tradotto in Italia con i titoli “La svastica sul sole” e “L’uomo nell’alto castello”). Non ho dati certi alla mano, ma ho la sensazione che si tratti dell’ucronia più letta in assoluto, o forse della più famosa. Faccio pertanto un po’ di fatica a riuscire a rintracciare qualcosa che possa raggiungere i livelli artistici dell’unico romanzo di Philip Dick premiato con un riconoscimento importante (il premio Hugo nel 1963).
Dopo aver letto Complotto contro l’America di Philip Roth, ho forse scovato anche il secondo più bel romanzo ucronico della classifica. Forse a pari merito con Fatherland di Robert Harris (ma l’ho letto troppo tempo fa per poter fare un paragone). E ora che ci penso anche La macchina della realtà di William Gibson e Bruce Sterling non era male. Meglio lasciar perdere la classifica, ho l’impressione che se ci penso ancora un po’ potrebbero venirmi in mente altri romanzi ucronici che meritano il podio.
Dopo l’entrata in guerra di Francia e Inghilterra contro la Germania Nazista, negli Stati Uniti d’America la popolazione si divide tra interventisti e neutralisti. Il presidente Franklin Delano Roosevelt, pur condannando l’aggressività tedesca, temporeggia. Ne approfitta un personaggio a quei tempi all’apice del successo: il celebre aviatore Charles Lindbergh, il primo ad effettuare la trasvolata atlantica in solitario sul monoplano Spirit of St. Luis. Si da il caso che Lindbergh sia anche un simpatizzante Hitleriano (dal quale riceverà un’onorificenza) e nutra sentimenti antisemiti. Il corso della storia cambierà quando Lindbergh deciderà di sfidare Roosevelt alla elezioni presidenziali.
Phlip Roth, scrittore ebreo vincitore del premio Pulitzer con il romanzo Pastorale Americana, mischia sapientemente elementi autobiografici con personaggi, anche minori, realmente esistiti, catapultati in una realtà alternativa più che plausibile. A volte i personaggi del racconto appaiono caricaturali, forse anche volutamente, mentre un sottile (molto sottile) umorismo permea le pagine del libro. Alcuni momenti drammatici fanno fatica ad impressionare il lettore, ma ciò penso sia voluto, considerata la narrazione in prima persona delle gesta e dei ricordi di bambino delle elementari. Un’ottima lettura, che pur trattando personaggi e temi complessi può essere affrontata in spiaggia sotto l’ombrellone.
Cosa si vuole di più dalla vita?