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Davide Longo – L’Uomo Verticale

Gran bel romanzo questo L’Uomo Verticale di Davide Longo, giovane scrittore italiano che – devo ammetterlo – non avevo mai sentito nominare, e di cui sono venuto a conoscenza grazie a una breve recensione pubblicata da Giuseppe Genna nel suo Blog.
L’Uomo Verticale somiglia a una sorta di prequel italico de La Strada, il capolavoro apocalittico scritto da Cormac McCarthy. Anche qui non si capisce quale catastrofe o quale sconvolgimento politico o sociale abbia fatto precipitare gli eventi, chi o che cosa abbiano condotto l’Italia a diventare una terra in preda alla barbarie, alla disperazione e al degrado. Qualcosa si intuisce, ma da’altra parte come in La Strada, non è importante cosa sia successo prima, ma come abbiano reagito dopo i personaggi sui quali è costruita la storia.
Il protagonista del romanzo è uno scrittore e docente universitario, una persona mite la cui esistenza è stata macchiata da uno scandalo che ha distrutto la sua famiglia. Dopo alcuni anni passati in solitudine nel suo piccolo paese d’origine, Leonardo, antieroe per antonomasia, si troverà ad affrontare situazioni terribili. Ritroverà una figlia dalla quale si era allontanato anni prima, e dovrà cercare di proteggere lei e il suo ambiguo fratellastro preadolescente, costretti ad affrontare situazioni di violenza estrema, in una escalation continua che accompagnerà il lettore verso un finale poetico e commuovente.
Se La Strada di McCarthy è un capolavoro, e lo è, L’Uomo Verticale di Davide Longo è un piccolo/grande gioiello della narrativa italiana contemporanea, al quale auguro un meritato successo internazionale.

Bellissimo.

Aggiornamento
Il successo internazionale alla fine è arrivato. Sono infatti disponibili su Amazon le edizioni Inglese (Last Man Standing), Francese (L’homme vertical:Traduit de l’italien par Dominique Vittoz (La cosmopolite)) e tedesca (Der aufrechte Mann) de “L’uomo verticale”. Sono stato un buon profeta.

Tommaso Pincio – Cinacittà

Per la prima volta vengo colto dal “blocco del recensore”. Arrivato all’ultima pagina di Cinacittà mi trovo nella sgradevole situazione di non riuscire a capire se ho avuto ad che fare con una buona lettura o con qualcosa di facilmente dimenticabile.
Ci ho messo un po’ di tempo prima di decidermi ad acquistare questo libro. La storia mi sembrava poco interessante. Mi importa poco della Roma del prossimo futuro, riarsa da un sole infuocato e invasa dai cinesi. Non amo le storie che parlano di omicidi passionali. E se vogliamo dirla tutta, anche il titolo non mi piaceva per niente.
L’unico motivo per cui mi sono deciso a leggere l’ultima fatica di Tommaso Pincio è che, appunto, è di Tommaso Pincio, l’autore di uno dei pochi capolavori che la narrativa italiana sia riuscita a produrre in questo inizio di secolo, il bellissimo Un amore dell’altro mondo.
Con Cinacittà siamo sui livelli di La ragazza che non era lei, quest’ultimo forse un tantino più originale.
Ciò che più mi piace di Tommaso Pincio è il suo stile di scrittura: semplice, lineare, poco auto celebrativo, ironico. Sembra di leggere Kurt Vonneghut, più che Thomas Pynchon.
E’ facile intuire che molte pagine del libro hanno un’origine autobiografica. Se così fosse, la biografia di Pincio e simile a quella di molti giovani italiani: intellettualmente dotati ma privi di stimoli. Sognatori ai margini di una società dove altre qualità rendono una persona interessante: l’aspetto fisico, la ricchezza, il carisma, la popolarità.
Tommaso Pincio è riuscito a emergere, a venirne fuori. Ma quanti sono, quanti siamo, quelli rassegnati, quelli che non ce l’hanno fatta?