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Walter Tevis – Solo il mimo canta al limitare del bosco

La lettura de Solo il mimo canta al limitare del bosco di Walter Tevis ha portato la mia memoria in dietro di decenni. Anni eroici nei quali passavo il tempo a scartare i pacchi postali che il postino mi recapitava con cadenza quasi settimanale. All’epoca ero cliente abituale di Nord e Fanucci, ma acquistavo anche i volumi di collane già estinte ma col servizio arretrati ancora attivo, come la celebre Galassia de l’Editrice La Tribuna. Frequenti erano le mie scorribande per librerie e edicole, dove facevo incetta di Urania e Oscar Mondadori come se non ci fosse un domani, e non disdegnavo le edizioni rilegate Mondadori e Rizzoli.
Il tutto durò meno di dieci anni, poi iniziai a lavorare stabilmente e i ritmi di lettura inevitabilmente calarono, finché non mi bloccai quasi del tutto: tra il 1997 e il 2002 lessi davvero poco, per poi riprendere gradualmente ma senza quegli eccessi giovanili.
Walter Tevis lo scoprii intorno ai primi anni ’90, quando lessi del tutto casualmente, e a poca distanza l’uno dall’altro, l’antologia Lontano da Casa e i due romanzi L’Uomo che Cadde sulla Terra (capolavoro assoluto, così come il cult movie con David Bowie che ne è stato tratto qualche anno dopo), e l’ottimo A Pochi Passi dal Sole, libro pubblicato su Urania una volta soltanto, nel 1992, e che a mio avviso sarebbe il caso finalmente di riproporre.
In pratica, 4/3 della produzione fantascientifica di Tevis l’avevo già fatta mia più di 25 anni fa, e mi mancava soltanto questo Solo il mimo canta al limitare del bosco. Per qualche motivo, tuttavia, ne rinviai per troppo tempo l’acquisto. Probabilmente l’editore Nord all’epoca non lo aveva più in giacenza, in libreria non si trovava più, e l’osceno titolo Futuro in Trance*, con il quale Mondadori lo ripropose in un paio di edizioni Urania e in un Oscar, me lo resero indigesto. Errore madornale.
Ho acquistato questo libro in ebook qualche mese fa, ciononostante l’ho messo in coda per dedicarmi alla lettura di alcuni romanzi più recenti. Purtroppo, passati gli anni eroici di cui sopra, ho perso interesse verso la fantascienza “vecchia”, per via del fatto che buona parte di quanto scritto fino all’inizio degli anni ottanta risulta ormai superato dal punto di vista tecnologico. Certo, non ci sono ancora in viaggi intergalattici, ma le tecnologie che hanno a che fare col quotidiano hanno reso eccessivamente obsolete buona parte delle previsioni fatte dai gradi scrittori di SF, fino a farle apparire estremamente ingenue, e questo un po’ mi fa storcere il naso. Per fortuna, prima di maturare nuovi interessi, di buona fantascienza posso dire di averne letto davvero tanta.
Mi mancava giusto Il mimo: un romanzo stupendo, malinconico, a tratti struggente e con un finale bellissimo, che m’ha fatto accapponare la pelle (letteralmente, reazione che ho sperimentato in vita mia non più di una decina di volte, una volta arrivato alla fine di un libro).
Tuttavia, prima che il libro iniziasse a ingranare, ci sono voluti almeno quattro o cinque capitoli di “assestamento”. Dopodiché, la voglia di riprendere il libro in mano ad ogni minima occasione s’è fatta irrefrenabile.

La sinossi in poche parole, senza spoiler: tra qualche centinaio di anni, in una Terra ormai spopolata, gli uomini vivono un’esistenza tranquilla: le droghe legali, la privacy, il “sesso rapido” ed una relativa stabilità economica, rendono la vita di ogni singolo individuo tanto semplice quanto piatta e monotona, e l’unica alternativa allo status quo consiste nell’immolarsi, bruciarsi vivi, come sempre più persone scelgono di fare, senza che questo desti il minimo interesse.
Il tutto viene regolato, controllato e pianificato dai Robot, di cui Spofforth ne rappresenta l’esemplare più evoluto. Dalle bellissime sembianze perfettamente umane, ma privo di organi genitali, Spofforth, creato per servire gli uomini e al quale vengono assegnati col tempo incarichi sempre più importanti e determinanti per le sorti del pianeta, vorrebbe porre fine alla proprie esistenza, ma la sua programmazione glielo impedisce: finché ci saranno uomini sulla terra, lui dovrà vivere per servirli.
Paul Bentley è invece un professore universitario (alter ego dello scrittore?) che su incarico di Spofforth visiona decine di vecchi film, e per capire il senso delle didascalie dei primi film muti, rimpara a leggere e scrivere, abilità ormai perse nel futuro immaginato da Tevis (ho fatto un po’ fatica, dal punto di vista logico/scientifico, a digerire questo aspetto del romanzo).
Mary Lou è invece una giovane donna, una vagabonda che in qualche modo è riuscita a sottrarsi al “controllo” e a vivere indipendentemente. Paul incontra Mary allo zoo, uno zoo finto, dove animali e bambini sono in realtà dei robot.
I due iniziano una relazione. Grazie agli insegnamenti di Paul, anche Mary Lou impara a leggere e scrivere. Ma Spofforth non può permettere tutto questo, e farà in modo che Paul venga processato e imprigionato in un carcere da dove poi tenterà la fuga. Spofforth porta Mary Lou a vivere con se, e lei nel frattempo scopre di aspettare un bambino: sarà l’ultimo esemplare della razza umana, in un mondo giunto al capolinea e dove i bambini non esistono più?solo il mimo canta al limitare del bosco
Il romanzo è narrato alternativamente in prima persona da Paul e Mary Lou , mentre i capitoli dedicati a Spofforth vengono narrati in terza persona. L’alternanza dei punti di vista non fa che impreziosire la lettura dell’opera.
L’edizione è corredata da una ricca prefazione di Goffredo Fofi (da leggere DOPO aver letto il romanzo), una presentazione (abbastanza inutile) di Jonathan Lethem e da un profilo bio-bibliografico.
Aggiungo infine che benché non possa pretendere che questo libro piaccia a tutti, ritengo che meriti il suo posto nella libreria di ogni vero appassionato di fantascienza. Si tratta di un vero classico del genere, un romanzo importante scritto sulla scia del Il Mondo Nuovo, 1984 e soprattutto Fahrenheit 451. Fidatevi.

* Non si offenda nessuno, specie se tra i miei “amici” su FB…

Alessandro Bertante – Nina dei Lupi

Questo articolo è stato scritto originariamente il 16 aprile 2011 e oggi – aprile 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Viene facile accostare Nina dei Lupi di Alessandro Bertante a L’Uomo Verticale di Davide Longo. È stato d’altra parte lo stesso Bertante a omaggiare e allo stesso tempo prendere le distanze dal romanzo di Longo: “Ci sono delle assonanze con La Strada di McCarthy e il recente ‘L’uomo verticale’ di Davide Longo, ma il mio percorso è diverso, non è ‘classico’. Mi sono ispirato ad alcuni testi di antropologia culturale e alla mitologia dell’arco alpino, che ha un’origine addirittura neolitica*”. Un semplice lettore come me, invece, non può fare a meno di notare che i due romanzi, benché diversi, sembrano costruiti lungo la stessa linea temporale. Volendola sparare grossa si può dire che Nina dei Lupi può essere letto come il seguito de L’Uomo Verticale.
Il romanzo di Longo è ambientato nel bel mezzo della prima ondata di barbarie scatenatasi a seguito di sconvolgimento sociale che ha annichilito istituzioni e forze dell’ordine. Le vicende narrate da Bertante invece sembrano svolgersi qualche anno dopo ed hanno per protagonisti alcuni abitanti di un villaggio di montagna isolato dal resto del mondo. Un mondo ormai in rovina abitato da piccole comunità che, scendendo a compromessi con la loro natura pacifica, sono costrette a impugnare le armi e difendersi dalle bande di violenti.
Se quello di Longo è in prevalentemente un romanzo “on the road”, Bertante concentra l’azione in mezzo alla natura, tra le montane, con le sue leggende e i suoi riti ancestrali, gli stessi ai quali l’autore stesso fa riferimento nella citazione dell’intervista sopra riportata.
Altra differenza consiste nella natura stessa dei protagonisti: quello principale de “L’Uomo Verticale” è in fin dei conti una persona mite, un intellettuale decaduto con un passato di successo, che durante lo svolgersi degli eventi dovrà imparare a sopravvivere e a proteggere le persone a lui care, abdicando alla propria natura pacifica e passiva. I personaggi di Bertante, dalla psicologia ben delineata, hanno invece qualcosa di eroico e mitologico. Addirittura epico, tanto che, come ha fatto notare lo scrittore Giovanni Cocco nella sua recensione pubblicata su Carmillaonline.com, il romanzo riecheggia alcune atmosfere tipiche dei racconti fantasy**.
Riassumo in breve la breve la trama: a seguito di un cataclisma non meglio precisato che ha fatto mutare il colore del cielo e che ha sprofondato il pianeta (o quantomeno l’Italia) nell’anarchia e nella barbarie, alcuni abitanti del villaggio di Piedimulo vivono in perfetto isolamento, dopo aver distrutto l’unico passaggio agibile tra le montagne: soluzione estrema che non sarà sufficiente a fermare una banda di predoni incline alla violenza e al sadismo, composta da persone un tempo normali e appartenenti a un’umanità eterogenea, che col precipitare degli eventi hanno dato libero sfogo ai loro peggiori istinti. Il gruppo prenderà possesso del paese decimandone brutalmente la popolazione e schiavizzando i sopravvissuti. Tra questi una bambina in procinto di diventare donna, già scampata ai disordini scoppiati in città, che riuscirà a fuggire nel bosco fino a rifugiarsi presso una sorta di eremita con passato cittadino. Un solitario che vive di caccia e provviste nella sua baita in mezzo al bosco. Insieme a loro vivono i lupi, i veri padroni della montagna.
Benché nel complesso abbia preferito L’Uomo Verticale, anche Nina dei Lupi è un gran bel romanzo, finalista del premio Strega e dal buon riscontro di critica e pubblico.
Il romanzo è caratterizzato da un buon ritmo, è abbastanza breve e si legge tutto d’un fiato. Se proprio gli si vuole trovare qualche difetto, posso dire che a tratti Bertante indugia troppo su una narrazione di stile fiabesco, anche in quei passaggi che, per contro, meriterebbero una prosa maggiormente realista. Penso ad esempio al racconto dello scoppio delle violenze che fanno da preludio al crollo della civiltà. Altre parti invece, finale compreso, vengono liquidate troppo velocemente, senza l’approfondimento che avrebbero meritato. Ma sarebbe davvero il voler trovare il capello nell’uovo.

* Intervista pubblicata su affaritaliani.it, 2 marzo 2011, a cura di Antonio Prudenzano
** Recensione pubblicata su carmillaonline.com, 11 marzo 2011, a cura di Giovanni Cocco

Umberto Rossi – L’uomo che ricordava troppo

Quello di Umberto Rossi è un nome affermato nel panorama fantascientifico nazionale, e non solo. Critico, studioso, traduttore e, con questo L’uomo che ricordava troppo, anche autore, il Professor Rossi è uno dei massimi conoscitori internazionali della figura e dell’opera di Philip K. Dick, autore al quale chiaramente di ispira, per sua stessa ammissione, nella stesura di questo romanzo dal titolo hitchcockiano.
Tanti sono infatti i riferimenti e gli spunti che riprendono direttamente le tematiche care al celebre scrittore californiano, dall’impossibilità di definire chiaramente una realtà oggettiva, alla presenza di universi paralleli e “ortogonali”; dalla programmazione mnemonica alla costante paranoia dietro la quale personaggi del tutto anonimi si tramutano in anti eroi sui quali far gravare il destino di un universo pronto a cadere a pezzi dal un momento all’altro… Boooooom!!!
Mettendo da parte i toni enfatici che, sono sicuro, il Proff. NON apprezzerà, posso dire che l’Uomo che ricordava troppo s’è rivelata una lettura divertente, semplice, lineare… fino a un certo punto. Molto bella la prima parte, nella quale il protagonista, Johann Hagenström, cerca di far riemergere quei ricordi appartenenti a un passato che sente non appartenergli. O quanto meno non sembrano appartenere all’universo nel quale vive. Aiutato da uno psichiatra dai modi ambigui, Hagenström tenterà di mettere ordine nel proprio passato e proverà a dare una spiegazione a quei ricordi che lo vedono protagonista di situazioni impossibili: combattente nella Guerra Civile Italiana che vede affrontarsi comunisti e fascisti; umberto-rossi-l-uomo-che-ricordava-troppoagente segreto in libano; sperduto in una Puglia desertica insieme a una donna che sente di amare; artista ebreo rinchiuso in un campo di concentramento, sottoposto a terribili esperimenti per mano di uno scienziato folle.
Andando avanti con la lettura le cose si complicano, non poco. Nella seconda metà del romanzo tante, forse troppe, sono le parti in cui il protagonista tenta di spiegare quanto sta succedendo a lui e al mondo che lo circonda, e i dialoghi con gli altri attori della vicenda diventano eccessivamente lunghi, a mio modo di vedere, tanto che alcune pagine credo di averle lette senza la dovuta attenzione. Poco male. La storia rimane comunque godibile, impossibile interromperne la lettura. Cosa si vuole di più?

Mauro Baldrati – Fuga

fuga, di mauro baldratiDa anni seguo con interesse il sito carmillaonline.com, sito dedicato a “Letteratura, Immaginario e Cultura d’Opposizione“. Lo seguo soprattutto per gli articoli dedicati, appunto, a Letteratura e Immaginario, e per i graffianti racconti satirici di Alessandra Daniele, mentre non condivido buona parte dell’ideologia politica di fondo, appartenente all’area antagonista. Ma questo è secondario.
Il romanzo breve intitolato Fuga, di cui parlo in questa breve rencesione, è stato scritto da Mauro Bladrati, redattore di Carmilla. È liberamente scaricabile dal sito, e questa è cosa buona. Si tratta, per loro stessa definizione, di un “thriller avventuroso di fantapolitica“. Molto fanta, direi: il Partito Democratico, al potere in Italia ormai da molti anni, ha subito un’evoluzione dispotica, diventando partito unico e gettando l’italia in una feroce dittatura alla Salò e le 120 giornate di Sodoma. L’opposizione clandestina, più o meno organizzata, è composta dagli ex NoTAV, indetificati come fuorilegge e criminali, e sottoposti – quando catturati – a terribili e sadiche pene detentive.
A rigor di logica, se si considera che in Italia abbiamo avuto un ex socialista a capo di una feroce dittatura fascista, non possiamo escludere che l’attuale sinistra al potete possa incappare in tentazioni autoritarie, ma la piega presa dagli eventi narrati nel racconto di Baldarati pare eccessivamente caricaturale, enfatica e inverosimile. D’accordo che si tratta di satira sconfinante nell’allegoria, ma il risultato m’è parso poco convincente.
Se non altro, si legge velocemente.

Luca Doninelli, Le Cose Semplici

Ho scovato questo romanzo grazie a una ricerca su Google. Dallo scarso numero di recensioni su Amazon, oltre al fatto di non averne mai sentito parlare, deduco che probabilmente il libro non ha avuto successo commerciale. Poco male: leggo la sinossi e decido di scaricarne l’estratto. Fin dalle prime righe mi rendo conto che è scritto benissimo, in prima persona, con uno stile semplice ma non per questo “povero”. Leggo in rete che Luca Doninelli, giornalista che scrive su testate che solitamente non leggo, ha vinto in passato un Campiello e un Grinzane Cavour, il che non è detto sia una garanzia, ma insomma…
Finalizzo l’acquisto senza rendermi conto che si tratta di un mattone da 840 pagine. E per fortuna, aggiungo, altrimenti – spaventato dalla mole – avrei anche potuto lasciar perdere. Purtroppo non leggo più come una volta, e salvo vacanze e occasionali tempi morti, mandar giù 840 pagine leggendo esclusivamente a letto e seduto sulla tazza equivale a dire che ci vorrà un mese e mezzo per arrivare all’ultima pagina.
Eppure non s’è rivelata, tutto sommato, una lettura faticosa. Vero: su facebook mi è capitato di scrivere un “Ma che fatica!”, riferito alle prime 3/400 pagine, ma s’è trattato di un’esclamazione dettata dalla mia scarsa abitudine ad affrontare romanzi così lunghi, nulla più.
Il libro è scritto in forma di diario, con capitoli brevi e spesso scollegati l’uno dall’altro, se non con i rimandi affidati alla memoria del protagonista narrante.
Provo a sintetizzare la storia: ci troviamo in un futuro apocalittico – ambientato inizialmente a Milano e nella seconda metà in gran parte negli USA -, grossomodo a ventidue anni da oggi, in un futuro che fa i conti col crollo della civiltà dovuto alla progressione iperbolica dell’attuale crisi economica. Crisi che sfocerà in un progressiva quanto repentina interruzione delle trasmissioni audio e video, delle comunicazioni, dell’erogazione di elettricità, della disponibilità di petrolio e carburanti. Seguiranno un breve periodo in preda alla barbarie e una successiva stabilizzazione verso una convivenza pacifica ma non priva di rischi per i superstiti intenti a sopravvivere. Questa è l’ambientazione, ma il romanzo in realtà racconta soprattutto la storia d’amore tra il protagonista e un genio della matematica: una ragazza francese di famiglia strettamente cattolica, appena quindicenne nel giorno del loro primo incontro. Lui giovane laureato e lei già docente alla Sorbona. Storia d’amore che li condurrà all’altare non appena lei compirà diciotto anni, e interrotta pochi anni dopo dall’avverarsi improvviso dell’apocalisse.

“Ci fu un preciso momento (nessuno saprebbe dire quale) in cui quelli che avevano pensato di controllare il mondo decisero di mandarlo al diavolo”

Lei si ritroverà da sola negli Stati Uniti, e li darà il via a una sorta di utopia grazie alla quale la civiltà potrebbe continuare – forse – ad avere un futuro, mentre lui nel frattempo si trova a Milano, una città in rovina, tra orrori e barlumi di speranza. Qui inizierà a scrivere i suoi quaderni, nei quali racconterà le vicende della sua famiglia (romanzo nel romanzo), della sua relazione con una ragazza anch’essa conosciuta da bambina, figlia di una sua amante, e poi ritrovata adulta dopo l’apocalisse, con la quale concepirà un figlio: non l’unico…
Insomma, se vado avanti rischio di rivelare troppe cose, ma va detto che Le Cose Semplici non è un solo romanzo: sono tante storie, tante vite, tanti dialoghi sapientemente e magnificamente costruiti. Dialoghi che trattano di letteratura, religione, filosofia, politica. Dialoghi caratterizzati da una sottile ironia di fondo, a tratti spassosa.
Non è facile per me recensire questo libro: i temi trattati sono così tanti e così “importanti” che penso di non avere una preparazione culturale sufficiente per scriverne come si deve.
Ho letto qualche altra recensione de Le Cose Semplici. Qualcuno è arrivato a dire che è il romanzo italiano più importante del 2015. E siccome, nonostante l’autore non sia uno scrittore di genere, si tratta a tutti gli effetti di un romanzo di fantascienza distopica (ma anche, come già detto, utopica), mi sembra strano, molto strano, che nell’ambiente della SF nostrana non se ne sia parlato per nulla.
Dovreste rimediare.

PS: preso dall’entusiasmo mi sono scordato dei difetti, che pure ci sono. Uno su tutti il finale, carino ma non all’altezza del resto. E poi ho trovato eccessiva la brevità delle storie narrate nelle ultime cento pagine.

Nicolò Ammaniti, Anna

Chiariamolo subito: questa è Fantascienza. Dico questo perché sia l’Autore (comprensibilmente, poi spiego perché), sia tutti i recensori con la puzza sotto il naso hanno fatto di tutto per evitare di includere questo romanzo in quel genere narrativo che in Italia uccide sul nascere ogni speranza di successo commerciale: la Fantascienza, appunto. E mentre a uno scrittore che campa dalle vendite dei propri libri tale rimozione – più o meno inconscia – può essergli perdonata, non si capisce perché chi recensisce sui grandi quotidiani nazionali e in TV eviti di pronunciare la parola Fantascienza, quasi come una bestemmia in chiesa. Tipico atteggiamento marchettaro italiota, immagino. In aggiunta, qui da noi la SF, a parte quella nobile anglosassone, non se la fila nessuno, salvo qualche rara eccezione generalmente rappresentata dai soliti finti-intellettualoidi, quelli che citano Dick senza averlo mai letto.
Fine dell’introduzione polemica.
Ricominciamo daccapo: Anna è un romanzo di fantascienza distopica… molto bello, giudizio a bruciapelo che mi sento di spendere subito. La storia è ambientata in Sicilia, un futuro indistinguibile dal nostro presente. Una variante del virus dell’influenza, che causa una malattia mortale chiamata la Febbre Rossa, ha apparentemente sterminato l’intera popolazione adulta del pianeta. Dico apparentemente perché i sopravvissuti, tutti giovani ragazzi e bambini, immuni al contagio fino alla pubertà, ignorano cosa ci sia dall’altra parte dello stretto. Ciò che è certo è non esiste più l’energia elettrica e di conseguenza non funziona qualsiasi forma di comunicazione basato sulla tecnologia. La protagonista, Anna, insieme a suo fratello Astor e all’amico Pietro, cercheranno di attraversare la Sicilia, evitando le comunità di violenti ragazzini adoratori della Picciridduna, sorta di divinità feticcio dai poteri miracolosi, e il branco di bambini cacciatori ancora più piccoli e dal linguaggio primitivo.
Anna di Nicolò AmmanitiNel lungo viaggio on the road attraverso l’isola sicula, Anna, coraggiosa e determinata come la quasi omonima Hanna cinematografica interpretata da Saorsie Ronan, dovrà ricorrere a tutte le sue forze per sopravvivere in un modo di macerie e violenza, difendere il fratello psicologicamente debole, e cercare di sbarcare in terra di Calabria, alla ricerca di qualche “adulto” o di quello che, rivelatole segretamente, potrebbe essere il bizzarro antidoto alla Febbre Rossa.

Il libro è lungo il giusto e si legge bene, e non viene mai voglia di interrompere la lettura. Un certo umorismo fa da sfondo alla vicenda, a tratti drammatica e mai volgare. Il finale è molto bello, da pelle d’oca. Infine, l’hanno detto tutti e lo dico anch’io, evidenti sono i riferimenti al Signore delle Mosche di Golding e a The Road di McCharty. Aggiungo una curiosità: a un certo punto c’è un passaggio nel romanzo che sembra copiato spudoratamente da una scena del film The Signs, di M. Night Shyamalan. Ma credo di averlo notato soltanto io…

Massimiliano Santarossa, Metropoli

Sarò poco originale, ma anch’io non posso fare a meno di sostenere, come hanno fatto altri recensori, che questo romanzo deve molto, moltissimo, alle distopie della prima metà del secolo scorso: Orwell, Huxley, Bradbury e Zamjatin. Non solo, durante la lettura ho colto evidenti rimandi alla fantascienza sociologica degli anni 60/70, alla Herry Harrison per intenderci, con chiari riferimenti ad alcune tematiche del romanzo Largo! Largo!, dal quale è stato tratto il cult con Charlton Heston “2022: I sopravvissuti“.
La storia.
A seguito di un catastrofico collasso produttivo, usa sorta di evoluzione iperbolica dell’attuale crisi economica, il mondo è piombato in un’irreversibile dissesto ambientale e sociale. La temperatura media del pianeta è crollata, gli stati e le istituzioni sono collassati, la maggior parte delle specie viventi estinte. Sopravvivono nella miseria e nella barbarie pochi esseri umani, tormentati dal freddo e dalla fame.
Unica speranza per chi tenta di sopravvivere è quella di raggiungere la città fortificata di Metropoli. Continua a leggere

Efe Tobunko, Risoluzione 23

Sarò banale, ma neanch’io posso esimermi dal far notare quanto questo romanzo breve ricordi, per stile e tematiche, le migliori storie cyberpunk degli anni 90′.
In molti hanno paragonato Efe Tobunko, talentuoso e ramingo scrittore africano, di cui non avevo mai sentito parlare, al miglior Gibson, con forti rimandi alla fantascienza distopica di Orwell e Huxley. Personalmente, forse per via della narrazione in prima persona, ci vedo qualcosa di G.A.Effinger, quello della trilogia del Budayeen e del Gattino di Schrödinger, e mi fermo qui coi paragoni.
La storia è ambientata in un futuro non troppo lontano, nel quale immani sconvolgimenti climatici hanno trasformato gran parte della Terra in un pianeta freddo e inabitabile. Soltanto nella fascia compresa tra i due tropici le temperature consentono la sopravvivenza della razza umana, e proprio a Lagos, città più grande del mondo e capitale di una Nigeria tecnologica e sviluppata, si muovono i protagonisti del racconto. Continua a leggere

Nicola Skert, Hitorizumo

Provo una certa difficoltà a recensire questo romanzo. Primo: perché mi è capitato di scambiare qualche parola con Nicola Skert via Facebook, e questa seppur risicatissima conoscenza rischia di compromettere il mio giudizio (sono fatto così…). Secondo: perché ho fatto una gran fatica ad arrivare alla fine del romanzo, ma gli ultimi capitoli valgono da soli l’intera lettura. Terzo: perché l’idea alla base della storia è ottima, e alcune trovate sono davvero geniali. Purtroppo però devo dire che alcuni difetti (o quelli che io soggettivamente reputo tali) rischiano di rovinare il tutto.
E parliamo subito di questi difetti, che poi stringi stringi è uno soltanto: i dialoghi. Troppo innaturali, artificiosamente brillanti, ricchi di battute spiritose ma che non fanno ridere, che vorrebbero essere cinici o sarcastici, senza riuscirci, anzi, che sembrano presi dalle pubblicità alla TV per quanto paiono forzati.
Peccato, perché al netto di questo grave difetto (e di qualche refuso qua e la), il romanzo è scritto davvero bene, e molte descrizioni vengono rese in maniera magistrale, anche se la soglia tra il racconto e lo spiegone viene lambita in più di un’occasione (senza peraltro mai tracimare in infodump logorroici).
La storia: improvvisamente la Terra piomba nel buio. Un buio impenetrabile e apocalittico, per il quale non esiste apparentemente una spiegazione scientifica. Un’oscurità sinistramente preannunciata da misteriose ombre che furtivamente, senza mai rivelarsi del tutto, sfiorano il campo visivo dei protagonisti.
Presto l’umanità si troverà a combattere contro il gelo polare dovuto al brusco calo termico, la totale assenza di luce e energia, gli incendi, i fumi tossici e le bande di gente comune in preda al panico o, peggio, a una incontrollabile follia omicida.
Paolo, un giovane meteorologo accompagnato dal suo amico Mirco, cercherà di raggiungere sua moglie Angela e il loro figlio Giulio, barricati tra le mura domestiche insieme a Luca, un amico e vicino di casa reso psicologicamente instabile dall’improvvisa scomparsa della luce. Sarà un viaggio difficile, pericoloso e drammatico, ma dopo il ricongiungimento qualcosa cambierà…
Basta, il rischio di rovinare la sorpresa nel lettore che si appresta a leggere Hitorizumo è alta, pertanto mi limito a dire che la trama non è soltanto quella da me sommariamente riportata. È altro, molto altro.
Un romanzo da leggere, e soprattutto da finire. Fidatevi.

PS: In appendice al romanzo vengono riportati alcuni studi scientifici che sviluppano l’ipotesi alla base del racconto, ossia l’improvviso spegnimento (o oscuramento) del sole. Purtroppo non si tratta di articoli divulgativi, e alla seconda equazione ho iniziato a perdere il filo. Peccato, perché l’argomento è interessante, ma per come viene trattato sembra rivolto a studiosi e accademici, non a appassionati di narrativa fantastica.

Andy Weir, L’Uomo di Marte

Dopo aver letto l’ultima pagina sono stato tentato di assegnare al romanzo cinque stelle su cinque nella recensione Amazon, poi ho ritenuto più adeguato un quattro su cinque, e alla fine della recensione per poco non correggo a tre stelle. Ma andiamo per ordine.
Finalmente un gran bel romanzo di fantascienza hard, dove tecnologia, chimica e fisica – ingredienti principali per concetti spiegati molto bene, senza l’utilizzo di formule matematiche o termini incomprensibili – vincono su qualsiasi forzatura narrativa di comodo, tipo [SPOILER]alieni, viaggi nel tempo, motori a curvatura, tachioni, superpoteri[/SPOILER]. Tuttavia ritengo che cinque stelle si possano dare soltanto ai capolavori assoluti, quelli che ti cambiano la vita, e questo certo non lo è. Si tratta di un ottimo romanzo, una gran bella storia che si legge tutta d’un fiato, senza cali di ritmo e che pagina dopo pagina mantiene la giusta tensione. Per questo quattro stelle.
Poi a ben vedere manca di un po’ di sana introspezione, le situazioni drammatiche non vengono rese con la giusta profondità, e le questioni psicologiche e filosofiche lasciano il passo alla successione degli eventi e alle descrizioni scientifiche/tecnologiche. Per questo alla fine sono stato tentato di levare un’altra stella, ma poi ho pensato al piacere che ho provato nella lettura, a quella voglia di non staccare mai gli occhi dalle pagine fino alla fine della storia. Insomma: quattro stelle e non se ne parla più. Continua a leggere